È disponibile subito il podcast di oggi de Il Disinformatico della Radiotelevisione Svizzera, scritto, montato e condotto dal sottoscritto: lo trovate qui sul sito della RSI (si apre in una finestra/scheda separata) e lo potete scaricare qui.
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Buon ascolto, e se vi interessano il testo di accompagnamento e i link alle fonti di questa puntata, sono qui sotto.
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Quattro anni di azione legale negli Stati Uniti hanno documentato quello che per molti sarà un tradimento informatico: la navigazione in incognito di Google Chrome è in realtà tutt'altro che in incognito e Google ha tracciato per anni le visite particolarmente sensibili che si fanno quando si usa questo modo di navigare nel Web. Intanto WhatsApp si prepara a cambiare di nuovo il limite minimo di età per usarlo, facendolo scendere da 16 a 13 anni anche in Europa. Se volete sapere perché WhatsApp finora ha avuto un limite di età così alto nel nostro continente e perché ora lo abbassa, siete nel posto giusto.
Benvenuti alla puntata del 5 aprile 2024 del Disinformatico , il podcast della Radiotelevisione Svizzera dedicato alle notizie e alle storie strane dell’informatica. Io sono Paolo Attivissimo, e oltre a queste notizie vi porto la strana storia di una foto di Playboy che è diventata uno standard tecnico per gli informatici. No, non sto scherzando. Cominciamo!
[SIGLA di apertura]
Uno dei miti più tenaci e durevoli fra gli utenti di Internet è l’idea che la navigazione in incognito sia, appunto, in incognito. Il nome di questa modalità di navigazione nel Web è infatti molto ingannevole e viene spesso frainteso.
La navigazione in incognito o anonima o privata, come la chiamano i vari browser, è in realtà semplicemente un modo per visitare siti senza lasciare tracce sul dispositivo che state usando. Non rimane memoria nella cronologia di navigazione, non vengono salvati cookie o file temporanei su quel dispositivo, tablet, computer o telefonino che sia. Ma i siti che visitate si ricordano eccome della vostra visita e sono perfettamente in grado di identificarvi. In particolare, è in grado di identificarvi Google, se navigate usando il suo browser Chrome.
È quello che emerge da una class action avviata nel 2020 negli Stati Uniti contro Google, i cui atti sono ora stati pubblicati : l’azienda ha concordato, non senza opporre grandissima resistenza per quattro anni, che cancellerà miliardi di dati raccolti mentre gli utenti di Chrome usavano la navigazione in incognito e probabilmente pensavano di navigare in modo anonimo, cullati da un falso senso di sicurezza.
L’azione legale prevede anche che Google aggiorni gli avvisi informativi che compaiono quando si attiva la navigazione in incognito. Questi avvisi dovranno dire molto chiaramente che Google raccoglie dati dai siti visitati, a prescindere dalla modalità di navigazione, in incognito o meno, e che i siti e le app che includono i servizi di Google scambiano in ogni caso informazioni con Google.
Sul versante tecnico, Chrome dovrà bloccare i cookie di terzi nella navigazione in incognito, visto che li usava per tracciare gli utenti durante questo tipo di navigazione su siti non appartenenti a Google, e dovrà oscurare parzialmente gli indirizzi IP per impedire la cosiddetta reidentificazione che permette di riassociare dati di navigazione apparentemente anonimi agli utenti che li hanno generati.
Gli effetti di questa azione legale si faranno sentire in tutto il mondo con i prossimi aggiornamenti di Chrome. Noi utenti non dobbiamo fare altro che aspettare questi aggiornamenti e installarli.
Ma nel frattempo resterà a molti l’amaro in bocca, perché solitamente la navigazione in incognito si usa proprio per visitare i siti di cui non si vuole lasciare traccia.
Per navigare veramente in incognito servono ben altre soluzioni: applicazioni come il browser Tor, per esempio. Ma questa è un’altra storia.
Dall’11 aprile prossimo l’età minima consentita per l’uso di WhatsApp scenderà da 16 a 13 anni anche in tutta Europa, allineandola al resto del mondo. Il cambiamento era stato annunciato a febbraio e serve, secondo WhatsApp, a “garantire un requisito di età minima coerente a livello globale.” Il cambiamento si applica a tutta la “Regione europea”, come la chiama WhatsApp, e questa regione include i paesi dell’Unione Europea e anche la Svizzera.
Il limite di età di 16 anni era stato introdotto per l’Europa nel 2018, innalzandolo da 13 anni, per rispettare le normative dell’Unione Europea, in particolare il regolamento generale sulla protezione dei dati o GDPR, che obbliga le aziende a fare “sforzi ragionevoli” per verificare l’età e ottenere il consenso dei genitori per gli utenti sotto i 16 anni. In pratica, WhatsApp ha preferito alzare il limite formale di età piuttosto che mettere in funzione un complesso sistema di verifica (BBC). Ma adesso le nuove garanzie sulla protezione dei dati dei minori legate all’introduzione di un’altra norma, il Digital Services Act, permettono di tornare al limite precedente.
In ogni caso, il limite formale era ed è tuttora ampiamente ignorato, come nota Pro Juventute, segnalando che del resto “non ci sono conseguenze legali per i minori di 16 anni che utilizzano WhatsApp” perché “secondo il diritto svizzero, mentire sull’età non è un reato punibile.”
Tuttavia dichiarare un’età non corretta viola i termini di servizio di WhatsApp, e quindi l’azienda potrebbe limitare o bloccare l’uso dell’app qualora si accorgesse che l’utente ha mentito. Cosa che succede spesso quando l’utente che si era iscritto anni fa a WhatsApp mentendo sull’età cerca in seguito di cambiare il proprio anno di nascita indicato nell’app, per allinearlo alla realtà: WhatsApp può accorgersi che l’account era stato aperto quando l’utente non aveva ancora l’età compatibile con le sue regole e quindi bloccare quell’account.
Va anche detto, soprattutto per i genitori confusi da tutti questi cambiamenti dei limiti di età dei vari social network, che la scelta dei 13 o 16 anni viene fatta da WhatsApp solo nel proprio interesse, per mettersi in regola con le norme, e non certo per tutelare i minori, per cui non va considerata come una linea guida per decidere se lasciare che i figli usino questo social network.
Fonti aggiuntive: ADNKronos, Dday.it, Laleggepertutti.it, WhatsApp, TechCrunch, WhatsApp.
Siamo nell’estate nel 1973, alla University of Southern California, dove un ricercatore in campo informatico sta cercando un’immagine da usare come riferimento per i suoi test di digitalizzazione. Roba assolutamente sperimentale per l’epoca. Per la conferenza tecnica che sta preparando gli serve un’immagine su carta patinata che includa un volto umano. Guarda caso, arriva qualcuno con una copia di Playboy.
Viene strappata la parte superiore del paginone centrale della rivista, che raffigura una giovane donna che indossa solo un cappello e una piuma viola, nello stile tipico di Playboy , e ne viene fatta la scansione con i metodi primitivi di allora: lo scanner è uno di quelli per le telefoto, che richiede che l’immagine venga montata su un cilindro rotante, e fa la scansione nei tre colori primari, a una risoluzione di 100 linee per pollice; i dati risultanti vengono poi elaborati con un minicomputer Hewlett Packard 2100. Un procedimento complicato che produce un’immagine da soli 512x512 pixel, che oggi fa sorridere ma che per l’epoca è un risultato davvero notevole.
Il ricercatore sceglie solo la porzione dell’immagine che include le spalle nude e il volto della donna, perché ha un contrasto elevato e una notevole ricchezza di dettagli che la rendono ideale per i test dei sistemi di elaborazione delle immagini. O perlomeno è questa la giustificazione ufficiale per l’uso del volto di una Playmate in un mondo quasi esclusivamente maschile come quello dell’informatica degli anni Settanta.
Sia come sia, la soluzione improvvisata piace e diventa popolare, per cui altri ricercatori inziano a usare questa foto come campione di riferimento per valutare i propri programmi di compressione ed elaborazione delle immagini. In breve tempo quella fotografia di Playboy diventerà lo standard tecnico di tutto il campo nascente della fotografia digitale e verrà pubblicata in moltissimi articoli tecnici nelle riviste di settore nei decenni successivi. Sarà ancora in uso quasi quarant’anni dopo, nel 2012, quando un gruppo di ricercatori di Singapore dimostrerà di essere capace di stampare a colori immagini microscopiche, larghe come un capello (50 micrometri, ossia 5 centesimi di millimetro) e userà proprio questa foto come dimostrazione.
Se oggi abbiamo GIF, JPEG e tanti altri formati per la trasmissione di immagini lo dobbiamo anche a quest’improvvisazione californiana, fatta oltretutto in violazione del copyright e poi accettata di buon grado dall’editore della rivista.
Ma chi è la ragazza in questione? È nota fra i ricercatori semplicemente come “Lena” o “Lenna”, ma la rivista dalla quale fu prelevata la sua immagine la presentò come Lenna Sjööblom, Playmate di novembre 1972. Il suo vero nome è Lena (una N sola) Forsén, e all’epoca lavorava come modella.
Non capita spesso che una foto di una Playmate diventi uno standard tecnico, ma è andata così. Tuttavia le sensibilità sono cambiate rispetto a mezzo secolo fa e in effetti questa foto ha contribuito allo stereotipo della donna oggetto in un campo nel quale le donne, pur avendo fatto la storia dell’informatica, non venivano ben viste come colleghe dagli informatici di sesso maschile. Inoltre l’associazione con il marchio Playboy strideva in un ambiente accademico.
E così le riviste del prestigioso gruppo Nature hanno iniziato a rifiutarla già nel 2018. E la IEEE Computer Society, una delle associazioni più famose e influenti del settore a livello mondiale, ha annunciato che dal primo aprile 2024 non accetta più articoli scientifici che usino questa fotografia. Verrà rimpiazzata da altre immagini standard già in uso, chiamate Cameraman, Mandril o Peppers (esempio), ma se vi capita di consultare qualche articolo d’informatica d’epoca e vi chiedete chi sia la graziosa fanciulla che spicca nelle pagine piene di grafici e tabelle, ora sapete chi è e conoscete la sua strana storia.
Fonti aggiuntive: Wikipedia, Ars Technica.