Cosa sono le piattaforme Web3? “Network costruiti su internet che usano meccanismi di consenso come la blockchain e che permettono di impiegare le criptovalute per incentivare la collaborazione di tutti i membri della rete”. La definizione che si legge su OneZero ha il merito di condensare in pochissime righe molti degli ingredienti alla base di quella che alcuni considerano la terza incarnazione della rete (sebbene ancora in fase embrionale), che sostiene di voler sottrarre il potere decisionale ed economico ai colossi della Silicon Valley per restituirlo agli utenti.
Blockchain, criptovalute, consenso e collaborazione. Per trovare l’ingrediente mancante, bisogna però rifarsi alla primissima definizione di Web3, coniata già nel 2014 da Gavin Wood, uno dei fondatori di Ethereum (la piattaforma blockchain che probabilmente più di ogni altra ha contribuito a dare il via a questa potenziale rivoluzione). Secondo Wood, il Web3 è un “ecosistema online e decentralizzato basato su blockchain”.
Eccolo, l’ingrediente mancante: la decentralizzazione. In definitiva, con la sua terza incarnazione il web dovrebbe dare vita a piattaforme – nell’ambito del cloud, dei social network, della finanza, dell’arte, della musica e tutto il resto – non più dominate da un solo attore che decide le regole e conquista tutti i profitti, ma governate invece da un network di collaboratori che determina le condizioni di utilizzo basandosi sul consenso, e che distribuisce a tutti i partecipanti una quota degli introiti in maniera automatizzata tramite smart contracts (“contratti intelligenti” o meglio automatizzati, ovvero programmi che entrano automaticamente in esecuzione appena gli accordi sottoscritti dalle parti sono soddisfatti).
Per iniziare a mettere ordine tra obiettivi, potenzialità e limiti del Web3, la cosa migliore è probabilmente partire dall’inizio. Se questa è la terza incarnazione della rete, che cosa l’ha preceduta? La prima versione del World Wide Web è quella che ha iniziato a diffondersi a livello commerciale a partire dalla metà degli anni ’90. I siti web non erano interattivi e non era possibile commentare o condividere nulla da nessuna parte (tranne che inviando i link via mail). Ciò che avevamo di fronte erano pagine web statiche di aziende, di giornali o in molti casi di siti amatoriali. Nel Web1, per sintetizzare al massimo, era possibile soltanto leggere.
Nei primi 2000 inizia a farsi largo il cosiddetto Web 2.0: termine coniato dalla web designer Darcy DiNucci e poi reso popolare dal guru della Silicon Valley Tim O’Reilly. È il web sociale, quello che non permette soltanto di leggere ma anche di commentare, condividere, seguire. È la forma di internet che dà vita ai blog, ai forum, a Wikipedia, a piattaforme come Tumblr. È ciò che permette a chiunque di partecipare alla creazione collettiva della rete.
Tutto questo raggiunge il suo apice – nel bene e nel male – con i social network. Facebook, Twitter e Instagram, da un certo punto di vista, sono il culmine del Web 2.0: consentono di partecipare attivamente e di scambiare contenuti nel modo più semplice e immediato possibile. Allo stesso tempo, però, ci rinchiudono all’interno dei loro “walled garden”, ovvero dentro ecosistemi chiusi, e in più raccolgono una marea di dati personali per poi bombardarci di pubblicità mirate. Possiamo leggere e scrivere (semplificazione estrema del Web 2.0), ma siamo anche (per alcuni soprattutto) dentro un “capitalismo della sorveglianza” dominato da poche grandi piattaforme centralizzate cui è difficile sfuggire.
La terza incarnazione del web promette invece di sfruttare la blockchain e le criptovalute per dare vita a un ecosistema in cui non solo possiamo leggere e scrivere sulle piattaforme, ma anche possederne delle quote.
A questo punto, degli esempi possono aiutare a chiarire il quadro. Filecoin è una sorta di Dropbox della blockchain che permette a tutti di salvare contenuti nel cloud. Il cloud di Filecoin non ha però sede nei data center di proprietà di qualche colosso del settore, ma negli hard disk di tutti i computer collegati a questa blockchain.
Invece di affidarsi a un’azienda privata per salvare le proprie fotografie, si può sfruttare la memoria libera delle migliaia di computer collegati alla blockchain di Filecoin, tramite la quale è sempre possibile controllare su quali hard disk sono salvati (cifrati) i nostri dati, monitorare gli spostamenti e reclamare automaticamente tutto ciò che ci appartiene. Chi affitta lo spazio presente sull’hard disk del proprio computer tramite Filecoin ottiene in cambio una quantità proporzionale della criptovaluta collegata, chiamata Fil, che può poi essere venduta sulle tradizionali piattaforme di compravendita di criptovalute.
Un altro aspetto cruciale di alcune realtà del Web3, come detto, è di offrire agli utenti il diritto di voto sulle decisioni che riguardano la gestione della piattaforma stessa, solitamente con un peso proporzionale all’attività svolta o alle criptovalute (o, più correttamente, token) possedute. Un esempio di governance decentralizzata è quella sperimentata da una realtà importante come Reddit. Come spiegato su Slate, “Reddit sta iniziando a farsi largo nel Web3 immaginando come utilizzare i token per consentire agli iscritti di possedere porzioni delle comunità che partecipano al sito. L’idea è che gli utenti useranno delle monete chiamate Community Points, guadagnate in base al numero dei post pubblicati e in base a quanti voti positivi o negativi riceveranno. Queste monete offriranno un proporzionale diritto di voto, consentendo a chi pubblica i contributi di maggiore valore di avere voce in capitolo sulla gestione della comunità”.
Un esempio di Web3 è il gioco Axie Infinity, che permette di collezionare, allevare, addestrare e far combattere dei mostriciattoli in stile Pokémon. Per possedere questi “axies” bisogna acquistarli tramite monete digitali, così com’è necessario comprare accessori o poteri per renderli più forti. Axie Infinity è però anche una forma di investimento, dal momento che, al contrario dei giochi tradizionali, chi vince le battaglie ottiene anche premi in apposite criptovalute. In questo e in altri giochi simili è anche possibile rivendere i propri personaggi, affittarli ad altri giocatori che non hanno il capitale iniziale necessario (conquistando una percentuale dei loro premi) e altro ancora. È un esempio di Web3 (per la precisione, del sottoinsieme della GameFi, la finanza dei videogiochi) perché, oltre a essere basato su blockchain e criptovalute, permette di far parte integralmente dell’economia del videogioco.
L’obiettivo finale del Web3, per il momento solo teorico, è quello di mettere in collegamento tutte queste piattaforme, dando così vita a un ecosistema unico in cui sarebbe possibile investire i token guadagnati giocando ad Axie Infinity per acquistare dello spazio su Filecoin o per aumentare la propria partecipazione alla community di Reddit. Non solo: poiché queste quote prendono la forma di criptovalute, se la piattaforma a cui partecipiamo ha successo, e quindi un numero maggiore di persone vuole acquistarle, queste aumentano di valore consentendo a chi più ne possiede (o prima ha investito) di guadagnare.
In un dettagliato report sullo stato del settore, pubblicato dalla società di ricerca sulle criptovalute Messari, il Web3 viene definito una “forza inarrestabile” che riplasmerà l’attuale internet. Per il fondatore di Messari, Ryan Selkis, sul lungo termine i marketplace governati da token rimpiazzeranno le aziende come le conosciamo. Dal suo canto, in una recente intervista, il già citato Gavin Wood ha ribadito la sua idea di Web3, ovvero “una visione alternativa del web, dove i servizi che usiamo non sono ospitati (nel senso di hosted, ndr) da un singolo fornitore, ma sono una sorta di entità puramente algoritmiche che sono ospitate (hosted) da tutti. Dunque è qualcosa di molto peer to peer ok? L’idea è che i partecipanti contribuiscono con una piccola fetta del servizio finale.” Ma Wood aggiunge anche un’altra riflessione sul rapporto (finora centrale) tra il Web3 e le criptovalute/ i token. “Penso che nel complesso vedremo dei servizi che saranno forniti anche senza la necessità di usare token. E questo sarà un balzo in avanti. E uno dei fattori chiave che aprirà la porta al mainstream”.
I sostenitori del Web3
Buona parte del mondo legato alle criptovalute. A partire da uno dei fondatori di Ethereum, Gavin Wood. O un altro cofondatore di Ethereum, Vitalik Buterin, che ha risposto in dettaglio alle critiche di Moxie (di cui parliamo più sotto nell’articolo), e secondo il quale bisogna guardare alla direzione cui sta andando il nuovo ecosistema e non alla situazione attuale. Poi ci sono nomi come Chris Dixon, che guida gli investimenti proprio in questo settore di un colosso del venture capital della Silicon Valley, Andreessen Horowitz o a16z. Responsabile di round di finanziamenti a società come Coinbase, OpenSea, e Yuga Labs, Dixon è anche un aperto sostenitore del Web3 su Twitter (e in questa recente intervista controbatte alle critiche di Moxie). Ma è un sostenitore anche l’ex Ceo di Google, Eric Schmidt, che dice di essere interessato al Web3 (e di averci investito). O ancora il direttore del Knowledge Media Institute John Domingue che qui parla della possibilità di creare una DAO University. O personalità come Jess Sloss, creatore del Seed Club, una DAO che costruisce e investe in community token (ne parla qua).
Quello immaginato dal Web3 è quindi un modello in cui l’economia di internet ridimensiona gli attuali colossi monopolistici che la dominano permettendo a tutti gli utenti di conquistare una fetta della ricchezza (e del controllo) oggi concentrati nelle mani di pochissimi. Ma è davvero possibile creare un’infrastruttura di questo tipo tramite blockchain? Davvero il Web3, nei prossimi anni, prenderà il posto del Web 2.0 che l’ha preceduto? Di sicuro non mancano i critici, anche aspri, di questa visione. Secondo alcuni di questi, per quanto sia affascinante immaginare una rete in cui la governance delle piattaforme venga decisa in maniera comunitaria e in cui tutti gli utenti che ne prendono parte abbiano vantaggi economici, difficilmente la gran parte degli utilizzatori di internet sarà interessata a collaborare allo sviluppo di un simile ecosistema.
Infatti l’utente medio della rete (a cui è connessa ormai più della metà della popolazione mondiale) difficilmente sarà interessato a una collaborazione così attiva, che prevede competenze tecniche non da tutti, la volontà di impegnarsi in prima persona nella gestione di una piattaforma e di mettersi in gioco economicamente tramite le criptovalute. La decentralizzazione offre sicuramente potenzialità inedite, allo stesso tempo non vanno sottovalutati i punti di forza della centralizzazione della rete che conosciamo oggi: non richiede alcun tipo di impegno e responsabilità, è più facile da utilizzare, delega tutte le decisioni ai proprietari e non prevede la necessità di esporsi a livello economico.
Ciò che a una nicchia di cripto-entusiasti, difensori della privacy e sostenitori della decentralizzazione potrebbero sembrare vantaggi irrinunciabili, alla maggior parte degli utenti appaiono probabilmente delle seccature che rendono più difficile e complesso utilizzare internet. Come ha sintetizzato il programmatore (e fondatore di Signal) Moxie Marlinspike in una sua critica del Web3, “le persone non vogliono gestire i propri server e mai lo vorranno”. Moxie fa riferimento ai server gestiti a livello individuale che permetterebbero a ciascuno di noi di amministrare autonomamente la propria casella e-mail (invece di usare Gmail), il proprio blog (invece di usare WordPress) e il proprio social network (magari federato con altri, come prevede il progetto di Mastodon).
Lo stesso discorso si può però ampliare: le persone non vogliono essere un nodo della blockchain. Le persone non vogliono prendere parte alla governance di una piattaforma. Le persone non vogliono gestire un servizio di cloud storage. Scrive ancora Marlinspike :“le aziende che sono emerse offrendosi di svolgere questo lavoro per voi hanno avuto successo, e quelle che hanno creato nuove funzionalità sulla base di ciò che era possibile fare con questi primi network hanno avuto ancora più successo”.
In poche parole, la centralizzazione finora è stata comoda, rapida, efficace. È sufficiente l’incentivo economico delle criptovalute per convincere la maggioranza delle persone a prendere parte al Web3? La terza incarnazione del web potrebbe dunque non sostituire la precedente, ma accostarsi a essa: offrendo nuove funzionalità e opportunità a chi desidera diventare una parte attiva di questo rivoluzionario ecosistema (lasciando che invece tutti gli altri possano continuare tranquillamente a usare Gmail, Facebook, Spotify e Dropbox).
La critica di Moxie Marlinspike nei confronti del Web3 si fa però più dura quando il fondatore di Signal spiega come questo ecosistema basato su piattaforme decentralizzate si stia già oggi rapidamente “ricentralizzando”, ricreando quelle stesse dinamiche che avrebbe teoricamente dovuto sovvertire. Com’è possibile? La ragione è semplice secondo Moxie: “Le blockchain sono progettate per essere un network tra pari, ma non sono progettate in modo da rendere possibile a uno smartphone o a un browser essere parte di questo network”.
Se le cose stanno così, come fanno gli utenti comuni a prendere parte alla compravendita di criptovalute? Come possono vendere comodamente le loro opere d’arte digitali certificate tramite NFT (i certificati di proprietà di beni digitali basati su blockchain)? Come fanno a custodire sul loro smartphone le criptovalute che posseggono? La risposta è tramite piattaforme come Coinbase, che svolgono il ruolo di intermediari e che per il loro lavoro trattengono una commissione. Oppure tramite servizi come OpenSea che sono diventati “broker centrali” e stanno avendo successo proprio perché – per i limiti tecnici della blockchain e per la comodità che offrono – svolgono il lavoro che per i normali utenti sarebbe troppo complesso fare. Se il Web3 vuole diffondersi oltre una ristrettissima nicchia di appassionati di blockchain, il suo paradossale destino dunque sarebbe quello di abbandonare l’ethos della decentralizzazione.
Per assurdo, conclude Moxie, piattaforme come OpenSea funzionerebbero ancora meglio se facessero piazza pulita di tutti gli elementi legati alla blockchain e al Web3. “Le persone che si trovano al termine della catena della compravendita di NFT non sono interessate ai modelli di consenso distribuito o alle meccaniche di pagamento, gli interessa soltanto sapere dove si trovano i loro soldi”.
Un altro dei critici più dichiarati è il programmatore e blogger Stephen Diehl. “La blockchain è una tecnologia perennemente all’orizzonte in cerca di un problema futuro per giustificare un investimento odierno”, scrive sul suo blog. “Compra oggi il mio token per assicurarti la quota di un domani migliore. È la suggestione vecchia come il mondo dei ciarlatani e dei venditori di olio di serpente, solo che questa volta è messa in giro dai più grandi investitori del mondo, che hanno le tasche strapiene di criptovalute di cui liberarsi”, conclude Diehl.
È la stessa polemica che ha sollevato Jack Dorsey, fondatore di Twitter, CEO di Block (società di pagamenti attiva anche nel settore delle criptovalute) e grande sostenitore della decentralizzazione. Perché un cripto-entusiasta come Dorsey dovrebbe essere contrario al Web3? La ragione è stata illustrata in una serie di tweet, in cui ha sottolineato come sia impossibile per gli utenti “possedere” il Web3 visto che tutte le piattaforme di questo ecosistema sono finanziate dai soliti venture capitalist, che inevitabilmente manterranno il controllo sulla loro gestione. “È semplicemente un’entità centralizzata con un’etichetta differente”, avverte Dorsey.
Nel corso del 2021 sono stati investiti nelle startup attive nel mondo del Web3 oltre 30 miliardi di dollari, elargiti da storiche realtà del mondo finanziario della Silicon Valley come A16Z (Andreessen-Horowitz, uno dei principali investitori in Coinbase e anche in OpenSea). Per alcuni sarebbe un paradosso: i promotori del web decentralizzato accettano investimenti colossali per finanziare i loro progetti garantendosi così un futuro in cui questi progetti non saranno più decentralizzati.
I critici del Web3
Tra i video che hanno avuto più successo sul fronte dei critici al Web3 c’è sicuramente “The Problem With NFTs,” dal critico dei media canadese Dan Olson. Nell’articolo abbiamo già citato esponenti come il software engineer Stephen Diehl, forse il più duro in assoluto, secondo il quale il Web3 sarebbe “bullshit” (spazzatura) o uno scam, una truffa. Poi sono state avanzate critiche dal creatore di Signal Moxie Marlinspike, ma anche dall’ex Ceo di Twitter Jack Dorsey. Nella lista va sicuramente inserita la software engineer Molly White, che ha creato un sito dal titolo (sarcastico) “Web3 is going great”, in cui raccoglie “tutte quelle cose dello spazio blockchain/crypto/web 3 che non stanno andando bene come promesso” (qui anche un suo articolo sul rischio o sul potenziale di abusi – nel senso di harassment – tramite blockchain). Senza dimenticare il podcast Crypto Critics Corner che si concentra su violazioni informatiche, problemi di sicurezza e frodi di questo mondo.
Per alcuni, la vera potenzialità innovativa del Web3 potrebbe però non aver nulla a che fare con concetti etici e democratici come la decentralizzazione, la distribuzione del consenso e la governance partecipata: potrebbe invece avere molto a che fare con la possibilità di “tokenizzare” tutta la nostra vita online, trasformando qualunque piattaforma in un potenziale mercato finanziario basato sulle criptovalute.
Dalla piattaforma Royal (che permette di acquistare una quota di nuove canzoni nella speranza che abbiano successo e maturino quindi diritti d’autore) al già citato mondo della GameFi (che trasforma in operazioni finanziarie anche i videogiochi), fino agli NFT, o ai social network gestiti tramite token e qualunque altro ambito della nostra vita digitale: tramite il Web3 sarebbe in corso una democratizzazione della speculazione che fino a poco fa era riservata ai frequentatori di Wall Street.
Quello immaginato dalla nuova incarnazione della rete sarebbe dunque un mondo digitale in cui ogni nostra attività può potenzialmente essere lucrativa o speculativa. È come se internet avesse appreso la lezione dell’alta finanza, che negli ultimi decenni – come spiega Ian Bogost sull’Atlantic – ha trasformato in strumenti finanziari qualunque tipo di asset. “Le previsioni meteorologiche vengono scambiate sul mercato da spedizionieri che vogliono tutelarsi da imprevisti. Goldman Sachs ha emesso dei bond supportati dai diritti d’autore che saranno maturati dal catalogo di Bob Dylan. I future sul botteghino del cinema erano stati per breve tempo autorizzati allo scambio sul mercato, prima di essere proibiti per il timore di insider trading. Se qualunque cosa può diventare la base di un prodotto finanziario, perché non anche i JPEG (immagini alla base di molti NFT, nda)? Prima che fossero i software a divorare il mondo, c’è riuscita la finanza”.
Una domanda potrebbe sorgere spontanea: che cosa c’è di male? Se, per fare solo degli esempi, partecipare a un social network del Web3 permette di conquistare dei token che aumentano di valore se la piattaforma ha successo, non è un passo avanti rispetto al lavoro gratuito che svolgiamo oggi su Facebook o Instagram? Se il mercato dell’arte si apre a una nuova fascia di utenti molto più versati nel mondo digitale che in quello fatto di tele e cornici, qual è il problema? Se sempre più piattaforme offrono più opportunità di guadagno, non è meglio per tutti? Da un certo punto di vista, probabilmente sì. Dall’altro, è importante sottolineare come ad avvantaggiarsi realmente di tutto ciò sia una fascia di popolazione molto più ridotta di quanto si potrebbe pensare, visto che l’economia delle criptovalute è già oggi ancora più concentrata di quella tradizionale (lo 0,01% dei proprietari di Bitcoin controlla il 27% dei 19 milioni di bitcoin attualmente in circolazione). Non solo: la totale deregolamentazione di questi mercati rischia di esporre le persone comuni a truffe di ogni tipo, mentre le montagne russe della criptospeculazione tendono ad avvantaggiare gli insider del settore lasciando agli altri il cerino in mano.
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