Quando pensiamo alla difesa di una nazione, ci vengono in mente soldati, strategie e tecnologie avanzate. Ma cosa succede quando un algoritmo viene chiamato a dire la sua? Il Ministero della Difesa britannico ha avviato un esperimento che va proprio in quella direzione.
Ha infatti deciso di impiegare un modello di intelligenza artificiale sviluppato dalla società statunitense Palantir per ottimizzare la sua revisione strategica della difesa. Il compito dell’AI? Analizzare e sintetizzare migliaia di pareri provenienti da fonti diversificate, tra cui i militari, i produttori di armamenti e i think tank, con l’obiettivo di migliorare l’efficienza decisionale e offrire più chiarezza su argomenti critici.
La revisione, condotta da figure di spicco come l’ex Segretario Generale della NATO George Robertson e Fiona Hill, ex consigliere di Donald Trump, si concentrerà su temi come le modalità di reclutamento militare, l’acquisizione di nuove armi e il futuro del deterrente nucleare Trident.
Tuttavia, l’integrazione dell’AI in un processo così delicato solleva questioni complesse e, inevitabilmente, preoccupazioni.
Uno dei timori più evidenti è che l’AI, pur eccellendo nell’elaborazione di grandi quantità di dati, fatichi a comprendere le sottigliezze che caratterizzano un ambito così sensibile. Il rischio è che queste sfumature escano dai margini delle analisi, portando potenzialmente a decisioni distorte o incomplete.
Sono considerazioni sollevate, tra gli altri, dalla professoressa Mariarosaria Taddeo, esperta in etica delle tecnologie della difesa, che vede nell’adozione dell’AI una potenziale porta d’ingresso per attori malevoli intenzionati a sfruttarne le vulnerabilità.
Un altro problema riguarda l’affidabilità stessa dei dati analizzati. L’AI potrebbe essere facilmente manipolata; attori esterni potrebbero inviare contributi pensati per superare i filtri automatizzati e influenzare quindi i risultati in favore di interessi specifici.
Un rischio reale, soprattutto quando alcune aziende o gruppi di pressione cercano di conquistare visibilità senza averne effettivamente i meriti o le competenze.
Non va poi trascurata la questione del controllo umano. Sebbene il Ministero della Difesa assicuri che l’intero processo sarà supervisionato da personale qualificato, resta da capire quanto incisiva sarà questa supervisione, considerando l’enorme mole di informazioni che l’AI dovrà gestire.
Se da un lato si cerca l’efficienza, dall’altro si rischia di annacquare quel “fattore umano” necessario a garantire decisioni ponderate, soprattutto in un contesto così complesso.
Sicuramente, l’AI ha il potenziale per trasformare il modo in cui si prendono decisioni nella sicurezza nazionale, ma la velocità e l’automazione non devono diventare le uniche priorità.
Conta trovare un bilanciamento tra progresso tecnologico e consapevolezza dei rischi.
Delegare troppe responsabilità all’AI, senza una comprensione profonda delle sue implicazioni, potrebbe portare a risultati disastrosi in un ambito dove non ci si può permettere errori.
Il futuro della difesa sarà inevitabilmente scritto in collaborazione con le nuove tecnologie, ma la chiave sarà capire fino a che punto lasciarle il controllo.
Questo esperimento del Regno Unito potrebbe tracciare una nuova direzione, ma resta da vedere se porterà a destinazione o se ci troveremo a dover correggere la rotta nel mezzo di una tempesta.