Infowar nelle elezioni americane: attori coinvolti, armi usate e impatti geopolitici
2024-11-27 16:46:17 Author: www.cybersecurity360.it(查看原文) 阅读量:0 收藏

La disinformazione è ormai parte integrante delle campagne elettorali statunitensi. Dalle elezioni “truccate” del 2020 fino ai “gatti mangiati dai rifugiati haitiani dell’Ohio”, passando per le più svariate e fantasiose teorie del complotto, abbiamo assistito a un’enorme proliferazione di fake news.

Tali falsità sono state veicolate attraverso i mezzi di informazione, a opera sia di attori stranieri, intenzionati a destabilizzare l’opinione pubblica, sia di attori interni.

Ecco una breve disamina dei principali casi legati a pratiche di infowar che hanno interessato le competizioni elettorali presidenziali, dal 2016 a oggi.

Fonte: Itineraria.

Il 2016: l’ascesa di Trump e il Russia-gate

La campagna elettorale per le elezioni presidenziali del 2016 ha visto un massiccio utilizzo di pratiche di disinformazione sui social e, addirittura, il diretto intervento di una potenza straniera nel tentativo di influenzarne l’esito. I social network sono il teatro prediletto dalla disinformazione.

La campagna #stopthesteal, che diventerà tristemente nota nella sommossa di Capitol Hill del 6 gennaio 2021, trae le sue origini nella corsa per le primarie del Partito repubblicano in vista delle presidenziali 2016. Roger Stone, alleato e consigliere politico non direttamente coinvolto nella campagna di Donald Trump, accusava le alte sfere del Partito repubblicano di ostacolare illegalmente la candidatura del tycoon.

Lo stesso Stone organizzava gruppi di supporter come forza di intimidazione, al fine di influenzare la convention dei repubblicani, che si sarebbe tenuta a Cleveland.

Ottenuta la consacrazione a candidato per i repubblicani alle presidenziali, nell’estate del 2016 la squadra di Trump, in quella fase guidata da Steve Bannon, affida a Cambridge Analytica (CA) la gestione della raccolta di dati per la campagna elettorale. CA è una società, con sede nel Regno Unito, specializzata nel microtargeting comportamentale tramite l’analisi del comportamento degli utenti sui social network. La società britannica verrà poi coinvolta in uno scandalo per aver utilizzato i dati di milioni di utenti, ottenuti illegalmente, al fine di manipolare i flussi dei contenuti sui social network e influenzare le scelte degli elettori.

A questo si deve aggiungere l’opera di manipolazione portata avanti da asset (troll farm, collettivi di hacker) con collegamenti con il governo russo. Pur non essendo state trovate prove sufficienti a carico di Donald Trump, l’indagine del procuratore speciale Robert Mueller ha portato a galla l’inequivocabile coinvolgimento dell’Internet Research Agency (IRA), una fabbrica di troll con sede a San Pietroburgo e con stretti legami con Evgenij Prigozhin.

L’IRA si è prodigata sia in una campagna a favore di Trump che in una contraria alla Clinton. La troll farm si è mossa usando principalmente tre modalità d’azione: creazione di falsi account sui social network, principalmente Facebook e Twitter; produzione e amplificazione di contenuti aventi lo scopo di disinformare e accentuare la polarizzazione delle opinioni politiche; organizzazione di manifestazioni per le strade.

Altro caso eclatante è il “furto” di email subito da John Podesta, presidente della campagna elettorale di Hillary Clinton. L’attacco informatico è stato attribuito al gruppo Fancy Bear, ritenuto legato ai servizi segreti del Cremlino. Il materiale trafugato veniva reso noto il 7 ottobre del 2016, un mese prima delle elezioni.

Nonostante l’imponente utilizzo di tattiche di disinformazione, sia da attori interni che esterni agli Stati Uniti, non è misurabile l’impatto che tali tattiche hanno avuto sullo spostare o meno preferenze.

Tuttavia, il dato incontrovertibile è un’accentuazione della polarizzazione dello scontro politico e l’inizio di una dinamica che porterà le controparti a diventare del tutto impermeabili alle istanze altrui.

Il 2020: Capitol-hill e #stopthesteal

La campagna elettorale per le presidenziali del 2020 è stata pesantemente colpita dalla pandemia di Covid-19 che imperversava a livello globale.

Il voto per posta, che già aveva avuto un discreto successo nella precedente tornata elettorale, diventava necessario per cercare di evitare quanto più possibile assembramenti nei seggi.

I dubbi sulle possibilità di manomissione dei risultati elettorali, uniti alla rabbia montante per le limitazioni imposte dalla pandemia, fertilizzavano il terreno per la disinformazione che dilagava sui media.

Rispetto alla campagna elettorale del 2016, la campagna del 2020 ha visto un’evoluzione delle tecniche utilizzate per diffondere disinformazione e destabilizzare quanto più possibile l’opinione pubblica statunitense.

L’ormai comune utilizzo di account social fasulli è stato affiancato dalla creazione di piattaforme d’informazione fasulle, le quali preparavano articoli da diffondere sui social. Ne è un chiaro esempio Peace Data, un sito di (dis)informazione gestito dalla ormai famigerata Internet Research Agency. Qui incontriamo una delle principali novità rispetto al 2016: l’assunzione di ignari giornalisti statunitensi.

Le vittime del raggiro venivano reclutate tramite annunci di lavoro sulle comuni piattaforme di “collocamento” e venivano regolarmente retribuiti per rendere l’operazione il più credibile possibile. Seguendo sempre la strategia della precedente corsa elettorale, alla narrazione pro-Trump veniva affiancata quella contro Biden.

Lo scopo primario di Peace Data era quello di intercettare l’ala sinistra dell’elettorato democratico.

Un cocktail di cultura pop e tematiche come immigrazione e cambiamento climatico avrebbero dovuto scoraggiare i democratici più giovani dal seguire Joe Biden, dipinto come eccessivamente spostato a destra.

L’organigramma editoriale della piattaforma era completamente composto da alias fittizi creati tramite Generative Adversarial Networks, i progressi delle intelligenze artificiali mostravano in questo modo il loro lato oscuro.

Anche l’attività degli hacker è stata alacre ed estesa. Secondo un rapporto di Microsoft sono stati centinaia gli attacchi informatici indirizzati verso i candidati e i principali esponenti di entrambe le campagne elettorali.

Nello stesso rapporto, l’azienda fondata da Bill Gates individuava i principali attori coinvolti nella battaglia informatica. I tre principali responsabili erano: Strontium, gruppo hacker con sede in Russia e già noto, anche con il nome di Fancy Bear, per il coinvolgimento nello scandalo Russiagate; Zirconium, gruppo operante dalla Cina, ha attaccato individui di alto profilo legati alle elezioni; Phosphorus, operante dall’Iran, che si è concentrato sull’indebolire Donald Trump colpendo personalità del suo entourage.

Anche in questo caso il contributo effettivo nello spostare voti della disinformazione non è misurabile, probabilmente addirittura marginale.

Il successo delle campagne disinformative si è manifestato nell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021. Migliaia di persone sciamarono nella capitale statunitense per impedire la certificazione del risultato elettorale e la conseguente vittoria di Joe Biden.

Quello che è successo a Capitol Hill non è un unicum nella storia recente americana. Giusto vent’anni prima, nel tardo novembre del 2000, centinaia di manifestanti repubblicani si sono recati nella contea di Miami Dade per bloccare il riconteggio dei voti che avrebbe potuto assegnare la vittoria al candidato democratico Albert Arnold Gore, l’episodio fu ricordato dalla cronaca con il nome di Brooks Brothers riot.

La campagna elettorale del 2000 vedeva contrapporsi lo stesso Gore al repubblicano George Walker Bush.

Quella di inizio millennio viene ricordata come una delle corse elettorali più combattute e controverse degli ultimi decenni. In termini di grandi elettori Bush si impose con un ristrettissimo 271 contro 266, mentre nel voto popolare – che non ha nessuna importanza nella designazione del vincitore – prevalse il candidato democratico.

Il pomo della discordia fu lo stato della Florida che assegnava 25 grandi elettori, necessari a entrambi i contendenti per ottenere la vittoria.

Fu necessaria una sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti per certificare la vittoria di Bush, contestualmente all’ammissione della sconfitta da parte di Gore, per chiudere tutte le controversie legali.

Tuttavia, la rivolta di Capitol Hill si colloca in un contesto diverso. Lo scarto di grandi elettori era decisamente più ampio (306 per Biden contro i 232 per Trump) e anche il voto popolare era decisamente a favore dei democratici.

Nel 2020 la disinformazione trovava un pubblico perfetto, le restrizioni dovute alla pandemia del Covid-19, alimentavano la rabbia delle persone. L’hashtag #stopthesteal tornava prepotentemente alla ribalta dopo la breve parentesi del 2016, e insieme alla martellante campagna di disinformazione, portata avanti da attori sia interni che esterni, radunava migliaia di persone fermamente convinte di salvare la democrazia.

Il rifiuto di riconoscere il risultato delle consultazioni ha ulteriormente aizzato la fiamma della protesta, creando lo spettro di una nuova sommossa in caso di sconfitta di Trump nella tornata elettorale del prossimo novembre.

Fonte: Itineraria.

2024: il copione non cambia

Arriviamo ai giorni nostri. L’intelligenza artificiale è alla portata di chiunque, visti anche i numerosi servizi gratuiti disponibili online. Anche in questa campagna elettorale assistiamo ad attacchi informatici mirati verso esponenti sia democratici che repubblicani.

Google ha, infatti, confermato l’attività di un gruppo di hacker chiamato Apt42, con legami con le guardie della rivoluzione iraniane. Non si ferma neppure l’azione di destabilizzazione portata avanti da soggetti legati al governo russo.

A inizio settembre, infatti, il governo degli Stati Uniti ha accusato due dipendenti di Russia Today (RT), l’emittente di stato russa. Si tratta di Kostiantyn Kalashnikov ed Elena Afanasyeva, i due sono stati accusati di “cospirazione finalizzata al riciclaggio di denaro e di violazione del Foreign Agents Registration Act”.

I dipendenti di RT avrebbero tentato di influenzare la campagna elettorale facendo diffondere materiale favorevole agli interessi russi da un’azienda del Tennessee, di cui non è stato rivelato il nome. I due agenti del Cremlino sono accusati di aver versato dieci milioni di dollari all’emittente statunitense.

L’azione disinformativa russa continua a crescere di intensità via via che ci si avvicina al traguardo del 5 novembre. Tutto questo è chiaramente sintetizzato dal video di un incidente stradale che avrebbe coinvolto Kamala Harris, che ha iniziato a girare a inizio settembre.

Per la trasmissione del contenuto è stato creato ad hoc un sito internet di un falso notiziario di San Francisco chiamato KBSF-TV. Nel video è stato utilizzato anche un attore che simula il ruolo di presentatore, per aumentarne la credibilità agli occhi del pubblico. Grazie alle nuove potenzialità dell’IA stiamo assistendo alla creazione di contenuti sempre più sofisticati, con bassi livelli di sforzo. Secondo gli esperti di Microsoft attori legati alla Russia continueranno a diffondere materiali divisivi sul web.

Non può non essere menzionata la campagna di disinformazione identificata da Graphika, società specializzata nel monitoraggio dell’attività online, denominata Spamouflage. Utilizzando sostanzialmente le stesse tecniche dell’IRA, Spamouflage è una campagna disinformativa, orchestrata da organi gestiti da Pechino, con lo scopo di diffondere materiale e contenuti favorevoli agli interessi cinesi.

Il Department of National Intelligence continua la sua opera di monitoraggio e contrasto delle attività disinformative. Tra i Paesi più attivi in questo 2024 ha identificato Russia, Cina e Iran.

Conclusioni

Le campagne disinformative ormai hanno raggiunto un elevato livello di successo, non nello spostare o nell’influenzare le scelte dell’elettorato ma piuttosto nel radicalizzare la competizione politica, rendendola di fatto instabile, imprevedibile e violenta.

Il livello di verosimiglianza della disinformazione ha raggiunto vette impressionanti, se paragonate al passato.

Pur non essendo l’unico obiettivo delle campagne di destabilizzazione, è verso gli Stati Uniti che si registra lo sforzo disinformativo maggiore.

L’impossibilità di porre degli argini preventivi, per non correre il rischio di instaurare un regime di censura, rende la società statunitense, oltre a tutte le altre società liberali, vulnerabile a questo tipo di tattiche.

Dal 2016 a oggi abbiamo assistito a un sempre crescente utilizzo di disinformazione in un contesto in cui gli equilibri globali non erano così in discussione dai tempi della dissoluzione dell’Unione sovietica. Sono diversi gli attori che puntano alla destabilizzazione interna dell’egemone americano al fine di diminuirne l’efficacia nei teatri periferici.

La circolazione di fake news è diventata naturale e usuale. E il rischio è particolarmente alto. Anche perché un bel pezzo del destino del mondo passa per la stabilità interna degli USA.


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